archiviopiemonte 14-03-2012
Secondo i calcoli ufficiali, con 400 reattori in funzione un incidente con fusione del nocciolo, il peggiore degli scenari, dovrebbe capitare una volta ogni 250 anni. Ne sono avvenuti 3 in 32 anni: Three Mile Island nel 1979, Chernobyl nel 1986, Fukushima nel 2011. I conti del nucleare non tornano. Né dal punto di vista economico, con le multinazionali del settore in difficoltà, né dal punto di vista della valutazione del rischio. Sono i dati contenuti in Lezioni da Fukushima, il rapporto preparato da Greenpeace a 12 mesi dal disastro in Giappone. «La catastrofe dell'11 marzo 2011 ha segnato la fine del paradigma della sicurezza nucleare e ha messo il mondo di fronte al fallimento profondo e sistematico delle istituzioni che avrebbero dovuto proteggere i cittadini dal rischio», si legge nell'analisi dell'associazione ambientalista. «I fatti hanno dimostrato che la minaccia nucleare non solo esiste ma è alta e colpisce in maniera imprevedibile». L'elenco degli errori venuti alla luce dopo il terremoto in Giappone è lungo e inquietante.
Primo: il piano di emergenza non ha funzionato e l'evacuazione è stata caotica, finendo per aumentare il numero delle persone esposte al pericolo. Gli ospedali nella prefettura di Fukushima hanno dovuto sospendere l'attività perché centinaia di dottori e infermieri non si sono presentati al lavoro per evitare di essere contaminati.
Secondo: la reticenza delle fonti ufficiali nell'offrire un quadro attendibile della situazione ha ritardato una reazione corretta. Ad esempio il 12 marzo gli esponenti del governo hanno assicurato che il reattore non stava rilasciando significative quantità di radioattività e che nell'area oltre i 20 chilometri dalla centrale le persone erano al sicuro. Dopo due settimane lo stesso governo è stato costretto a chiedere a chi viveva tra i 20 e i 30 chilometri dalla centrale di lasciare volontariamente la propria casa. Infine, ad aprile, l'evacuazione è stata portata in alcune zone fino a un raggio di 50 chilometri.
Terzo: i software per prevedere la ricaduta della radioattività non sono stati usati in maniera corretta. Ad esempio migliaia di persone sono state fatte rifugiare in una scuola in cui era stata prevista una ricaduta dei radionuclidi e che è risultata effettivamente contaminata. E la situazione continua a presentare gravi incognite ancora oggi, nonostante - grazie a una fortunata combinazione meteorologica - i venti abbiamo trascinato verso la terra solo il 20 % della radioattività uscita dagli impianti.
«A un anno dal disastro le persone colpite dalle radiazioni e costrette ad abbandonare tutto quello che avevano sono ancora prive di indennizzo e sostanzialmente abbandonate a se stesse», si legge nel rapporto di Greenpeace. «Alla fine, saranno i contribuenti giapponesi, e non la società Tepco, proprietaria della centrale esplosa, a pagare la maggior parte dei danni». Circa 150mila persone hanno dovuto abbandonare le loro case (nonché 3.400 mucche, 31.500 maiali e 630 mila polli). Nonostante la legislazione giapponese preveda gli indennizzi, la mancanza di procedure specifiche ha fino ad oggi ritardato i risarcimenti materiali a chi, oltre ad avere perso tutto, si trova ora esposto al rischio di gravi conseguenze sulla salute. Al momento la Tepco ha tirato fuori 3,8 miliardi di dollari, a fronte di un danno che può essere valutato tra i 75 e i 260 miliardi di dollari. Una cifra che supera i 500 miliardi di dollari se si includono, oltre ai danni, i costi dello smantellamento degli impianti della centrale di Daiichi. Anche dal punto di vista tecnico, l'impresa della fuoriuscita dalla crisi Fukushima appare ardua. Il governo si è impegnato a decontaminare 13mila chilometri quadrati, un'area grande quanto la metà della Sicilia. Ma non ha spiegato dove si metteranno le decine di milioni di metri cubi di terra contaminata. Se a queste incertezze si aggiunge la necessità di un continuo monitoraggio della radioattività lungo la catena alimentare, si ottiene il quadro di un incidente che non ha ancora smesso di produrre danni e lutti.
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